24.03.08
L’Orso sulla via di Rio
di ROBERTO FERRETTI
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La 58’
edizione del festival di Berlino si è conclusa
con cifre da capogiro: 1.600 invitati, 1.256 proiezioni,
20.000 accreditati da 125 paesi, inclusi i 4.200 giornalisti
e 230mila biglietti staccati per i 430mila spettatori
che si sono, senza litigi, spalmati su ben 383 film.
Davanti ad una macchina organizzativa così
imponente ci siamo sentiti disarmati. Per esprimere
un giudizio completo saranno sufficienti le proiezioni
alle quali assistiamo?
Questo dilemma ci assaliva ogni qual volta che, con
il programma in mano, dovevamo scegliere un film a
scapito di un altro. Scrematura resa più difficoltosa,
in quanto scoraggiati, dalla visione di una serie
di lavori decisamente non belli sia nella sezione
Panorama (che solitamente ci è di gran conforto),
che nella competizione ufficiale. Edizioni dal livello
generale non all’altezza delle passate rassegne,
possono capitare, soprattutto se, avvenimenti importanti
in un anno, si avvicendano ravvicinati nel tempo come:
la recente Festa del cinema a Roma e l’imminente
notte degli Oscar a Los Angeles.
Così, può succedere che una pellicola
controversa, come “Tropa d’elite”
(squadra speciale), del regista brasiliano Josè
Padilha, possa aggiudicarsi il premio più ambito,
l’Orso d’oro.
Verdetto contestato, in quanto il film, già
campione d’incassi in patria (11 milioni di
spettatori e più di 3 milioni di copie pirata
vendute prima dell’uscita ufficiale), si presenta
come un lavoro in qualche modo già visto (vedi
“City of God” o “la Zona”).
La violenza della polizia nelle favelas e la corruzione
dilagante, nel paese di Lula, sono i protagonisti
assoluti di questa pellicola brasiliana. Lo stile
misto tra videoclip e documentario ha nonostante tutto,
impressionato il presidente della giuria: Costa Gavras
e il giurato (già montatore di “Apocalypse
Now”), Walter Murch.
E’ sempre bene per un festival del cinema internazionale
avere un regista giovane da seguire e incoraggiare.
Un cavallo di razza nella scuderia da mandare in pista
quando la giuria internazionale non sa che pesci pigliare.
Cannes ha sempre incoraggiato registi come Gus Van
Sant, i fratelli Cohen o Lars Von Triers. Venezia
vanta una autentica schiera di fan sfegatati per Takeshi
Kitano e non ci sono speranze di vincere qualcosa
se nelle vicinanze c’è Ang Lee.
Berlino non è da meno e se capita l’annata
fiacca non si fa mancare d’invitare in concorso
Paul Thomas Anderson.
Già nel 2000 con “Magnolia” P.T.Anderson
si aggiudicò l’Orso d’oro. In questa
edizione l’eccellente regista californiano con
il film “There will be blood” (già
nelle sale italiane con il titolo il “Petroliere”)
si è accaparrato il premio per la miglior regia;
che in qualche modo fa il paio con l’Orso d’argento
per la miglior colonna sonora andato a Johnny Greenwood:
mente pensante dei “Radiohead”. Sicuramente
altri premi arriveranno a Los Angeles dalla imminente
notte degli oscar. Nella parte del protagonista, si
è calato, un impressionante Daniel-Day Lewis,
meritevole del premio per la migliore interpretazione
maschile più dell’iraniano Reza Najie
(per “La canzone del passero”). Questo
personaggio è un cercatore di minerali preziosi,
un uomo solo, infaticabile e cinicamente inarrestabile
nella sua ascesa verso il successo. Scavando nelle
viscere della terra troverà lo slancio per
arrivare in alto grazie alla scoperta dell’oro
nero e lo sfruttamento dei giacimenti in larga scala.
Forse il miglior documentarista del mondo Errol Morris
si è aggiudicato il gran premio della giuria
ovvero l’Orso d’argento per il film “Standard
Operating Procedure”. Severo, teso come e piú
di un film di fiction e intrinsecamente allarmante,
Standard Operating Procedure appartiene alla categoria,
rara, dei film che andrebbero davvero proiettati nelle
scuole. Il documentario tratta delle note vicende
delle carceri di Abu Graib.
I torturatori non fecero altro che portare alle estreme
conseguenze quanto gli alti comandi pretendevano da
loro (e una didascalia finale ci avverte che non ci
fu alcun condannato che avesse gradi superiori a quello
di sergente). In un mondo dominato dall’ immagine
il vero scandalo non deriva dalla tortura ma dal fatto
che sia stata filmata, fotografata, inserita nel circuito
informativo globale: e non stupisce che uno dei soldati
coinvolti rilevi con amarezza il paradosso di una
punizione dovuta non tanto agli atti commessi ma alla
loro riproduzione visiva.
Molta musica in questa edizione della Berlinale già
dalla sera inaugurale, con la presentazione del documentario
sui Rolling Stones, di Martin Scorsese “Shine
a light”. Il famoso regista ha spiegato che
il film è stato girato in un momento molto
particolare. Le riprese sono state fatte nel 2006
- tra il 29 ottobre e il 1 novembre - nel piccolo
e molto decorato Beacon Theatre di New York, in occasione
del sessantesimo compleanno di Bill Clinton (è
lui che nel documentario introduce il concerto). E
poi a seguire il primo film di Madonna “Filth
and wisdom” (“Sporcizia e saggezza”)
che inizialmente doveva essere un cortometraggio,
presentato nella sezione Panorama ha ottenuto giudizi
abbastanza lusinghieri, se si tiene in considerazione
i precedenti fiaschi, che la pop star, aveva collezionato
nel mondo della celluloide.
I tre film che ci sono piaciuti di più avevano
curiosamente un filo che ne univa il soggetto: l’elaborazione
del lutto. Per la scomparsa della anziana moglie come
nel film tedesco “Hanami” (Fiori di ciliegio),
o per la giovane moglie, come nel film italiano, “Caos
Calmo” di Emanuele Grimaldi con Nanni Moretti.
Snobbato dalla giuria internazionale ma gratificato
dagli incassi al botteghino (verrà distribuito
anche in altri 12 paesi stranieri). E per ultimo “Lake
Tahoe“, lo splendido esordio nel magico mondo
dei lungometraggi (premiato dalla stampa internazionale)
del neanche quarantenne messicano Ferdinando Eimbcke
che, regala un’ora e mezza di pura magia cinematografica
con una lievissima e personalissima commedia sulla
difficoltà per un adolescente nel superare
un lutto improvviso, la morte del padre.
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